Jobs (2013)

jobs-header-130703Il film comincia con la presentazione dell’iPod nel 2001, e la riproduce diversamente – e decisamente meno sexy – da come andò veramente (for the records, ecco i link alla presentazione reale e alla versione cinematografica). Se tanto mi da tanto, lo stesso parametro si applica a tutto il film: una rilettura, quindi, più che un documento o un’omaggio, che alla fine sembra ridursi alla libera interpretazione di una serie di eventi più o meno interessanti, assemblati in modo non particolarmente consequenziale. Girato male e montato peggio, il film ci presenta una narrazione a salti temporali piuttosto difficile da seguire, regalandoci uno Steve Jobs che non ha nulla del noto carisma del personaggio reale, ma risulta un concentrato degli aspetti più deteriori della sua personalità. Steve Jobs fu unanimemente riconosciuto, nel bene o nel male, come un visionario, mentre purtroppo questo filmetto si preoccupa di più di riprodurre la sua camminata (per altro in modo imbarazzante) che non il succo della sua vision, che invece appare ipersemplificato e ridotto ad una ipertrofica maniacalità per l’ordine e la perfezione formale. Alla fine il film si può anche vedere, ma anche no, a patto che tu sappia davvero chi era Steve Jobs. Se invece non lo sai, questo film è inutile e dannoso, la visione renderà il personaggio insulso e detestabile, ma soprattutto fondamentalmente irrilevante nella storia della consumer electronics. Cosa che, comunque la si pensi, è un’eresia.

Steve Jobs: In your life you only get to do so many things and right now we’ve chosen to do this, so let’s make it great.

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Johnny English Reborn (2011)

Dopo averci regalato lo splendido Dorian Gray (2009), Oliver Parker sale sul seggiolino dolly e dirige questo pericoloso sequel di Johnny English (2003). Il pericolo sta tutto nel rischio di assuefazione agli spy-spoof, che ormai abbondano dai vari Get Smart fino a Spy Hard, passando per tutta una serie di pellicole più o meno spoof, più o meno note. Nel mirino sempre l’ultraclassico James Bond, e se non altro questo Johnny English Reborn è talmente affine a 007 in termini di look and feel da riempire il vuoto dovuto al ritardo del terzo capitolo del reboot con Daniel Craig. Torna Rowan Atkinson nei panni della spia che vi amava, e con lui la mitica Gillian “xfiles” Anderson nel ruolo di Pegasus, capo dei Servizi Segreti di Sua Maestà. Il cast è ottimo e credibile, e questo da stoffa al film che, potendo contare anche su un livello produttivo sicuramente degno di un vero 007, si distacca da prodotti analoghi. Alla fine la trama di questo Johnny English potrebbe sembrare un’avventura dell’Ispettore Clouseau, con la classica formula dell’imbranato che rocambolescamente riesce a risolvere il caso e a prendersi la gnocca (una meravigliosa Rosamund Pike). Ma va detto, ad onor del vero, che per siamo ben lontani dalle ultra minchiate alla Leslie Nielsen, con una sceneggiatura che tolte le gag di Atkinson (in cui vi assicuro si ride comunque di gusto) potrebbe quasi reggere anche uno spy-movie serio. Insomma, se da un lato questo è un film sicuramente perdibile e probabilmente inutile, dall’altro mi sentirei di consigliarlo a tutti gli amanti del genere spionistico, per l’atmosfera che si respira e per le incessanti strizzatine d’occhio, citazioni e richiami a tutto il mito dell’universo Bond.

Johnny English: I may not know much about golf Tucker, but I know how to hold the bat.

The Jackal (1997)

Stroncato dalla critica, non riconosciuto dall’autore del romanzo da cui è tratto (Frederick Forsyth), osteggiato anche da Fred Zinnemann regista dell’originale The Day of the Jackal (1973), questo film sembra avere attirato su di se tutta la voglia di critica dei frustrati di Hollywood e dintorni. Il che, sinceramente, è abbastanza incomprensibile. Perchè se è vero che The Jackal non è un capolavoro, nè una pietra miliare, nè particolarmente memorabile, è altrettanto vero che i tromboni della critica ufficiale si sono spesso sperticati con bonaria tolleranza per filmetti molto peggiori di questo. In fondo, lo sciacallo di Michael Caton-Jones è un dignitoso thriller di fine anni ’90, girato senza fronzoli nè con particolare personalità, ma con la gradevolezza del mestiere, una bella fotografia croccante, un montaggio bello ritmato, musica giusta e con un supercast da urlo in cui al tandem di belloni Willis/Gere si affiancano con autorevolezza l’evergreen Sidney Poitier e la credibile Diane Venora nei panni della poliziotta russa. Lungo il percorso è intrigante vedere i vari travestimenti dello sciacallo, l’inseguimento dei buoni, lo sviluppo del piano, la costruzione dell’arma. E se anche, ovviamente, il film richiede un discreto esercizio di training autogeno per raggiungere l’indispensabile sospensione dell’incredulità, alla fine la sua unica vera pecca è il solito, assurdo, forzatissimo, fottuto happy end. Perchè il vero Jackal ce l’avrebbe fatta, ma i benpensanti del sunset boulevard non ne vogliono sapere, forzando un finale in cui i soliti buoni trionfano, che più ritrito non si può. E poi lo criticano. Che dire? Coraggio.

Declan Mulqueen: This man is no clown. He knows all your moves, back to front. Right now, you’ve got a name; that’s all you’ve got. The Jackal has got a target: you. He’s got a timetable. And as to making mistakes, he’s spent twenty years in a trade that doesn’t forgive error. And he’s prevailed. You think he’s the one who’s up against it? It’s the other way around. 

Jaws (1975)

Siamo all’inizio degli anni ’70, quando il ragazzo Steven Spielberg, all’epoca poco più che 25enne, decide di interessarsi di pesce e tira fuori dal cilindro questa specie di aqua-thriller. Un film capace di andare a lavorare sulle tue paure più nascoste, quelle che poi si potrebbero riassumere e visualizzare con l’acqua nera, buia e ostile che rappresenta il lato oscuro di un bagno di mezzanotte. Basato sul romanzo omonimo di Peter Benchley, anche co-sceneggiatore, Jaws è il film che – praticamente in una notte – proietta Spielberg dal banco dell’asilo dei potenziali talenti alla scrivania da re mida di Hollywood. Un film costato 9 milioni di dolla e capace di incassarne 470, in cui, per precisa scelta narrativa, non ci sono attori protagonisti ma tutti comprimari, dato che il vero protagonista dev’essere l’enorme squalo bianco con la morte degli occhi. Ma intorno al cattivissimo pesciolone Roy ScheiderRichard DreyfussRobert Shaw rappresentano comunque un casting perfetto, misurato e credibile, capace di dare al film una marcia in più. Miglior montaggio, miglior colonna sonora, miglior sound sono gli oscar assegnati a Lo Squalo, ma teniamo presente che era anche in nomination come miglior film, andato poi a una cazzatina tipo One Flew Over the Cuckoo’s Nest. Un capolavoro che guardi con apprensione, megistralmente orchestrato per rimestare dentro di te alla ricerca del tuo punto debole, mentre tu provi a resistere con le unghie piantate nei braccioli. E quando, ai titoli di coda, galleggi anche tu nell’oceano attaccato ai resti del tuo divano, sei veramente sollevato che Scheider abbia centrato quella bombola.

Vaughn: And what did you say the name of this shark is?
Hooper: It’s a carcaradon carcharias. It’s a Great White.

Jackie Brown (1997)

Ecco il ritorno in grande stile di Pam “Coffy” Grier, rilanciata da Tarantino in questo grande omaggio alla blaxploitation anni ’70. Alla fine Jackie li mette in riga tutti e vola in Spagna, in un film esagerato, con un supercast che mette insieme uno strafatto Robert De Niro, il solito grande Samuel L. Jackson, una meravigliosa Bridget Fonda e perfino l’ex Batman Michael Keaton. Ma la vera sorpresa, l’altra metà di Pam in questo film, è Robert Forster – un altro geniale ripescaggio di Quentin – delicatamente complice, senza il coraggio di andare fino in fondo. Forse Jackie Brown non è originale e particolare come altri film di Tarantino, ma forse proprio questa sua presunta normalità lo rende semplicemente perfetto.

Jurassic Park (1993, 1997, 2001)

Difficile che Spielberg sbagli un film, anche se con il primo capitolo della trilogia dei dinosauri c’è davvero andato vicino. Tolti i valori produttivi “assoluti”, l’ipersemplificato adattamento del bel romanzo di Crichton infatti lascia mooolto a desiderare. Detto questo il film travolge e sconvolge grazie alla novità, e mentre i raptor ti staccano a morsi interi pezzi di divano, tu devi fare training autogeno per ricordarti che sono computer generated. Nel ’97 Steven ci riprova e stavolta riesce a toppare. Venuta ormai meno la novità, il film fa acqua da tutte le parti, rivelandosi un sequel inutile e sbagliato, prodotto con tanti milioni di dolla solo per farne dieci volte tanti. Potrebbe andare peggio? SI, potrebbe esserci il n.3… E infatti. L’unica sorpresa del terzo capitolo, telefonato e filoguidato dall’inizio fino al ridicolo happy/army-end, è tutto sommato la sua vuota godibilità. Un filmaccio sgangherato, che lo sgamato Spielberg ha fatto bene – stavolta – a mollare al primo Johnston che ha trovato.