Live and Let Die (1973)

Il primo Bond interpretato da Roger Moore, l’unico in cui non appare il mitico Desmond Llewellyn nel ruolo di Q. Live and Let Die segna l’addio definitivo di un certo Sean Connery al personaggio e al filone, ed era ora visto che il Connery che aveva interpretato Diamonds are Forever era veramente ormai impresentabile, che in compenso cambia marcia. Moore porta un po’ della sua leggerezza, e quel suo sorriso ironico a sostituire il ghigno sbruffone e la s moscia di Connery. La sceneggiatura segue, e alleggerisce di conseguenza. Non sempre nella direzione giusta, però. Live and Let Die alla fine ha un paio di cose belle (il titolo e la musica) e per il resto è una ciofeca quasi inquadrabile. Non è un film di spionaggio, non è action, non intrattiene (l’inseguimento dei motoscafi è da spararsi nei coglioni) e non c’è nemmeno figa. Per non citare, ma lo farò, il patetico tentativo di strizzare l’occhio al filone Blaxploitation, che se fosse passata di lì Coffy avrebbe preso tutti a calci nel culo. Malgrado questo, però, il film fu un successone costato 7 milioni di dolla e capace di incassarne, ad oggi, oltre 161. Per carità, lo si può guardare, ma preparatevi all’effetto gran premio, soprattutto se il divano è comodoso.

James Bond: Hi there. Allow me to introduce myself. Bond. James Bond. 
Solitaire: I know who you are, what you are, and why you’ve come. You have made a mistake. You will not succeed. 

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Lesbian Vampire Killers (2009)

Qui c’è un gran puzzo di occasione mancata. E dalle ceneri di un’approccio alla vorrei tanto essere un esempio di B-movie degli anni duemila esce questa stronzatona di dimensioni epocali. E pensare che l’inizio era promettente, con quella voglia di regia alternativa (Phil Claydon), magari un po’ forzata, alla ricerca del famolo strano ad ogni costo, ma comunque carina e intrigante. E a dire il vero, anche alcune battute non erano male. Ma poi il tutto implode nel delirante liquame di uno script arrabattato (Paul HupfieldStewart Williams sarebbero da sbattere in miniera) ma soprattutto della pavida incapacità di portare l’idea alle estreme conseguenze. Insomma, analizzando le tre parole che compongono il titolo – ammettiamolo, intrigante – di Lesbian qui c’è molto poco, ancor meno c’è traccia di Vampire, mentre i Killers (che immagino dovrebbero essere i protagonisti guidati dal puzzolente e unto James Corden) fanno buttar via dalle risate un intero pollaio. E purtroppo non si tratta di risate positive. Peccato, perchè oltre ai già citati titolo e inizio (promettenti) c’era un gran bisogno di un B-movie come si deve. Personalmente mi ci sono avvicinato con l’inconfessabile speranza di trovarmi di fronte ad un altro gioiellino tipo Shaun of the Dead, pia illusione! Lasciate ogni speranza, oh voi ch’entrate: questo film è una vera ciofeca.

Fletch: Yep, lesbian vampires. Just another one of God’s cruel tricks to get on my tits. Even dead women had sooner sleep with each other than get with me it would appear. But eatin’ me alive, oh no, that’s fine. Next time he’ll have me bummed by a big gay werewolf I swear.

Love and Other Drugs (2010)

Durante i titoli di coda ho mormorato carino, anche se alla fine ripensandoci non so nemmeno bene perchè. Questo film è strano, per due motivi: 1) i personaggi sono polarizzati, tagliati con l’accetta, costruiti quasi senza nessuna profondità. Ma malgrado questo riescono a bucare lo schermo e ad esserti simpatici, a creare una sorprendente empatia, merito forse della regia delicata e calda. 2) Edward Zwick – di cui adoro The Last Samurai – tenta di mescolare acqua e olio, senza naturalmente riuscirci troppo bene, ma shakerando lo spettatore nel tentativo. Tradotto: comedy e drama difficilmente vanno d’accordo, e sono rarissimi gli esempi di un mix equilibrato di questi due generi. Questo film, questa è la notizia, non entrerà a far parte degli esempi. Le venature drammatiche, le riflessioni sulla malattia, le incursioni nel sentimentale più serio, risultano parentesi forzate, spinte dentro a fatica in uno spazio – la commedia – che difficilmente le può ospitare. Un po’ come forzare un cubo nel buco triangolare al test di ammissione nei carabinieri. Il film resta tuttavia piacevole, principalmente grazie alle prove convincenti di Jake “Donnie Darko” Gyllenhaal Anne “Devil Wears Prada” Hathaway, che come detto sviluppano una chimica intrigante e che, malgado una certa inclinazione al faccismo (occhi troppo sgranati, sorrisi troppo ampi, stupore troppo stupito e così via) sono decisamente bravini e gradevoli. Acqua fresca, fonte Hollywood. Però, come spesso accade, capace di dissetarci in un bel martedi sera spiaggiati sul divano.

Maggie Murdock: You want to close right? You want to get laid?
Jamie Randall: Now?
Maggie Murdock: Oh right, right, right. I’m supposed to act like I don’t know if it’s right. So then you tell me that there is no right or wrong. It’s just the moment. And then I tell you that I can’t while actually signalling to you that I can, which you don’t need because you’re not really listening. Because this isn’t about connection for you. This isn’t even about sex for you. This is about finding an hour or two of relief from the pain of being you. And that’s fine with me, see, because all I want is the exact same thing.

Låt Den Rätte Komma In (2008)

Dal ghiaccio dell’inverno Made in Svezia un incredibile vamp-movie, una storia che si svolge tra adolescenti – ma in modo serio, non certo la minchiata alla Twilight, per capirci – regalandoci un film sorprendente e affascinante, in cui l’assenza di qualunque effetto speciale produce miglior risultato di certi prodotti basati su troppe maschere e fiumi di sangue. Let the Right One In, da vedere in lingua originale sottotitolato in inglese per ottenere il meglio dei due mondi. A Hollywood si lavora sul remake, ma credo che le vette e gli abissi di questo originale saranno intatti e tranquilli a lungo. Meravigliosi e ignoti i giovanissimi attori che ci regalano i personaggi protagonisti Oskar (Kåre Hedebrant) ed Eli (Lina Leandersson), calati nell’innevata realtà di una cupa Svezia anni ’80, con una sceneggiature semplice e rigorosa e quel trattamento quasi cheesy, quasi soap, ma perfetto per garantire questo sorprendente effetto real-tv. Tomas Alfredson dirige bene, equilibrato, asciutto e secco. Alla fine ovviamente parteggi per lei, anche se il mostro che ha dentro probabilmente un giorno si nutrirà anche del biondo Oskar, pur salvandolo ora dai suoi piccoli persecutori. Un grande film alternativo, da correre a vedere, assicurandosi di aver invitato Eli ad entrare.

Eli: I’m twelve. But I’ve been twelve for a long time.

Lo Chiamavano Trinità / Continuavano a Chiamarlo Trinità (1971, 1972)

Mi esposa estava al fiume, señor, a lavare… un gringo l’aggredì, e la voleva… io sono corso in suo aiuto, avevo il coltello… quello mi guarda, e muore. Nel cadere avrà battuto la testa, io gli ho dato solo qualche coltellata… e via così. Un film perfetto, che segna un’epoca, oltre che rappresentare il giro di boa che, nel passaggio finale dallo spaghetti western alla commedia, sancisce definitivamente la fine del genere. Divertente ed acuto, ironico e pungente, è in questo film che la coppia Terence Hill/Bud Spencer mette definitivamente a punto i meccanismi che diventeranno l’inconfondibile trademark di un’intera generazione, raggiungendo momenti di indimenticabile simpatia. La seconda puntata non perde un colpo, ma anzi perfeziona ulteriormente la chimica del primo capitolo, portandola ad un livello molto prossimo alla perfezione. In un susseguirsi di gag memorabili – la sbruffona partita a poker, l’incredibile pranzo al ristorante francese, la scazzottata finale nel monastero – rafforzate dall’affiatamento ormai travolgente dei due protagonisti, il regista Enzo Barboni spara alla nuca all’epopea western e scappa col malloppo, con buona pace di John Ford, dei pellerossa e perfino di Sergio Leone.

The Losers (2010)

Avrei voluto a tutti i costi trovare il modo di parlare bene di questo film davvero molto simpatico. Sylvain White dirige un action finalmente moderno, che forse rappresenta quello che avrebbe potuto essere The Expendables – immaginatelo per un attimo con quel cast di vecchie glorie – se fosse stato realizzato da un team un filo più fresco. Regia e fotografica sono da urlo, e le continue strizzate d’occhio al fumetto, la scelta dei colori e della grana rendono The Losers davvero cool e piacevole alla vista. Ma purtroppo le buone notizie finiscono quà. Colpa di una sceneggiatura davvero frusta, che puzza troppo di dejà-vù e che ripropone (ancora!) il solito pezzo grosso della CIA che diventa rogue, abbandona i protagonisti (la solita specie di A-Team/simpatiche canaglie ex militari supercazzuti ognuno con la sua specializzazione) nella giungla colombiana, costringendoli a mettere in piedi una vendetta con l’aiuto della solita gnocca (in questo caso la splendida Zoë Saldaña). L’ultima cattiva notizia è il finale, spalancato verso un possibile sequel, che dipenderà ovviamente dalla performance al botteghino. Un film ottimo per un paio d’ore a cervello spento ma che alla fine si aggiunge al capitolo occasioni mancate.

The Life Aquatic with Steve Zissou (2004)

Un film strano, comico, drammatico, avventuroso, commovente. Un cast enorme che ha per protagonista l’equipaggio della nave oceanica Belafonte, capitanato da uno stralunato Bill Murray alle prese con la sua personalissima Moby Dick, somewhere in the mediterranean, affiancato alla grande da Owen WilsonCate BlanchettAnjelica Huston. Un film bellissimo e inspiegabile, diretto con intelligente ironia dal grande Wes Anderson, bellissima fotografia, bellissime scenografie, bellissime location. Alla fine Zissou il Jaguar Shark lo trova ma non lo uccide. E’ troppo bello per farlo fuori, e forse rappresenta finalmente un significato in una vita piena di macerie e punti di domanda. Soundtrack meravigliosa, curata dell’ex DEVO Mark Mothersbaugh: e infatti tra musiche – originali o cover – di Bowie, Iggy and the Stooges e Joan Baez spunta, al minuto 34, l’indimenticabile Gut Feeling. Da vedere e rivedere.

Lock, Stock and Two Smoking Barrels (1998)

Quando Guy Ritchie era ancora duro e puro, girava queste robine che definirei british pulp allo stato brado. Questo è il film che fa da trampolino di lancio di un certo Jason Statham, in compagnia del super-brit-super-baddie Vinnie Jones e di uno Sting senza basso. Un film cattivo, violento, immorale, maleducato e bastardo ma anche irresistibilmente divertente. Da vedere ad ogni costo. Con audio originale (per il sound inimitabile dello slang londinese). Meglio con sottotitoli (se si vuole capire qualcosa).

Lost in Translation (2003)

Un sogno girato con delicatezza e grande attenzione. Un film capace di donarti sensazioni. Come addormentarsi su un’amaca, come sentire un profumo, riscoprire un ricordo. Come guardare negli occhi chi ami e sentire che è proprio amore. Sentire. Ecco, c’è sentimento in questo film insonne che Sofia Coppola gira con dolcezza. Un film praticamente perfetto, che mentre vanno i titoli di coda vorresti già rivedere. Inimitabile e catatonico, un grandissimo Bill Murray ed una Scarlett Johansson acqua e sapone, insieme alla ricerca di un punto di contatto, nella solitudine glaciale dell’iper-tecnologica Tokyo.

Lord of the Rings (2001, 2002, 2003)

Le tre polpette buttate fuori da Peter Jackson tra il 2001 e il 2003 (The Fellowship of the RingThe Two TowersThe Return of the King) le metto insieme in questo unico commento perchè alla fine il polpettone è quello. Un’opera faraonica che ha tradotto il librone in immagini e ha il dubbio merito di aver contestualmente rivitalizzato il genere fantasy e di fatto creato le megabattaglie digitali (poi riviste nei vari Troy, Kingdom of Heaven, ecc). Tre film che quando li vedi al cinema colpiscono, e magari pensi perfino alla perfezione. E intendiamoci, forse la perfezione formale c’è anche, ma il punto vero è che poi, quando compri – perchè poi li compri – i DVD, che come se non bastasse sono in extended director’s cut (!), dopo un po’ li ritrovi là sullo scaffale con sopra tre dita di polvere. Da vedere una volta. Armati di santa pazienza.

Land of the Dead (2005)

Giorgione Romero ci riporta per la quarta volta i suoi living dead, gli originali. E stavolta lo fa da numero uno, con una produzione di livello ed un cast che, se non proprio di star, almeno è composto di attori. Stavolta la venatura politica è fin troppo urlata, ma a parte questo il filmone scorre gradevole, pur senza la poetica dei predecessori. E poi c’è Asia, che meriterebbe un bel discorsetto a quattr’occhi…

Life of Brian (1979)

Acuto, come solo in UK sanno essere, soprattutto se si chiamano Monty Python. Brian è un film assolutamente blasfemo, ferocemente dissacratorio e fermamente indipendente. Certi passaggi fanno male dal ridere, per un film stra-cult che sta in cassetta di sicurezza insieme a Young Frankenstein.