The Man Who Fell to Earth (1976)

bowie_man-who-fell-to-earthRicordavo questo film come imperdibile. Rivisto oggi, cambierei l’aggettivo. Resta comunque, nel bene e nel male, un film unico. Pervaso di anni ’70, a tratti psichedelico, mai banale. E poi David Bowie, magrissimo, con quella faccia e quegli occhi, perfetto nei panni dell’alieno caduto sulla terra. La storia è quella solita, di come l’umanità accoglierebbe un essere di un altro mondo. Cioè nel peggiore dei modi malgrado tutte le minchiate di fratellanza universale che spariamo nello spazio. Lo abbiamo visto in Starman di Carpenter, o in The Day the Earth Stood Still. Ma qui lo vediamo in un’ottica più british rispetto a quella americaneggiante cui il cinema ci ha abituati, lo zoom non è sulle istituzioni ma sugli uomini. Qui non è la CIA a far del male al malcapitato alieno. Qui sono gli uomini stessi che lo tradiscono, gli mentono, lo alcolizzano. In fondo, alcuni lo amano, ma alla fine finiscono anche per approfittare di lui nel modo peggiore, senza dargli modo di ripartire, di tornare a casa, dai suoi amori. Finendo per ucciderlo. Un film forte e capace di emozionare, che certo va avvicinato tenendo conto della distanza siderale che ci separa dagli anni in cui è stato prodotto, che si sentono e vedono tutti. Malgrado ciò, secondo noi da vedere almeno una volta nella vita, anche solo per dire che non ti è piaciuto.

Thomas Jerome Newton: We’d have probably done the same to you, if you’d come ’round our place.

Advertisement

The Machine (2014)

THE-MACHINE_Dir_Caradog-James_First-Words_Photo_Courtesy_Red-and-Black-FIlms-555pxUn bel film indipendente, stiloso e ricercato, prodotto con amore – e quell’inconfondibile british touch – in the UK. Certo, vero che quasi tutto quello che si vede forse lo si è già visto prima, ma anche i cuochi usano sempre gli stessi ingredienti, no? E qui stiamo parlando di un film che comunque riesce a mescolare il tutto in modo intrigante. Forse alla fine il piatto ha un gusto già noto, ma questo non è necessariamente un male. Qualcuno dice Blade Runner, bah, io sinceramente non ci ho visto nulla di replicanti e affini. Forse, proprio volendo trovare una legacy, siamo più dalle parti di Battlestar Galactica e i suoi Cylon. In ogni caso, il solito tema se una forma di vita artificiale sia a tutti gli effetti una forma di vita o meno. Belle atmosfere cupe e giochi di luce che aiutano a nascondere la povertà di mezzi – The Machine è costato poco più di uno spot pubblicitario – ci regalano un film che vale assolutamente la pena di vedere, se non, come detto, per estrema originalità, per prendere un attimo di vacanza dalle solite produzioni patinate made in west coast.

Vincent: Machine?

Marie Antoinette (2006)

La mega-produzione di Sofia Coppola, oscar per i migliori costumi, descrive in modo tutto suo la parabola dell’Austriaca alla corte di Francia, e lungo il percorso smentisce perfino la famigerata battuta Maestà, il popolo non ha pane! e lei Che mangino brioche! Non è il solito film dilatato di Sofia, ma un bellissimo affresco sul crepuscolo di un impero. Ricostruzione, costumi e location sono davvero da urlo, e trasmettono alla grande lo stucchevole senso di spreco e di avvitamento su se stessa di una monarchia che ha perso il senso della misura in ogni direzione. Ma soprattutto questo film parla di una donna e della sua solitudine, a partire dalla siderale distanza della madre, passando per tutti gli assurdi privilegi/doveri regali, per finire con le patetiche performance di un maritino più interessato alla caccia alla volpe. Kristen Dunst alla fine non è nemmeno male nella parte della principessa catapultata regina, e anche il resto del cast – inclusa Asia Argento nella parte della zoccola di corte – se la cava bene. Tutti bravi, e tutto contribuisce a rendere palpabile il distacco tra quello che avviene fuori Versailles (l’imminente Rivoluzione Francese) e l’assurdità della vita di palazzo. Dichiaratamente realizzato senza nessuna volontà di rappresentare un documento storico, ma solo di rappresentare una storia, questo film è da vedere perchè potentemente onirico, prepotentemente cinematografico, spettacolare e per certi versi intrigante. Curiosa e meravigliosa, infine, la scelta di una colonna sonora a cavallo tra la musica classica – che ti aspetti – e i capisaldi della new-wave anni ’80 (Joy Division, Cure, Adam and the Ants, Siouxsie and the Banshees, ecc.) che invece non ti aspetti, ma che risultano sorprendentemente perfetti anche in costume settecentesco (i titoli di coda con All Cats Are Grey dei Cure sono da vera pelle d’oca!)

Marie-Antoinette: This is ridiculous.
Comtesse de Noailles: This, Madame, is Versailles.

The Mist (2007)

Dietro la Macchina da Presa c’è un certo Frank Darabont, che dopo aver diretto cazzatine tipo The Shawshank Redemption torna a gettarsi a capofitto nel mondo di Stephen King, portando sullo schermo queste sue nebbie horror. Partendo da un plot squisitamente B-Movie – il classico esperimento dei militari in cui qualcosa è andato maledettamente storto – il film ci catapulta nella solita, anonima cittadina Americana, e più precisamente nel suo centro commerciale, anche in questo caso pescando a piene mani tra i capisaldi del genere, vedi Dawn of the Dead di Romero. In effetti per tutta la prima metà del film Darabont da l’idea di cercare a tutti i costi il clichè, quasi a rassicurarti che quello che stai vedendo sia il solito filmetto horror. In realtà tutto questo avviene con gusto e sempre al di fuori della banale scopiazzatura, mentre di fatto il regista ti sta tendendo un bel tranello di cui ti renderai conto solo negli ultimi cinque minuti. Questa rassicurante sensazione di dejà vù è uno dei quattro pilastri di questo capolavoro del cinema horror. Mostruosità da record e critica sociale (mai così dichiarata, in particolare nei riferimenti alla religione) ne costituiscono altri due, mentre il quarto pilastro è finalmente un unhappy-end veramente devastante e capace di lasciarti con la mascella appoggiata sul divano mentre scorrono i titoli di coda. Assolutamente da vedere, anche per i non amanti del genere, altro che solito filmetto horror!

Bud Brown: It appears we may have a problem of some magnitude.

Minority Report (2002)

L’ex golden boy di Hollywood Steven Spielberg si mette in scia e, vent’anni dopo che qualcuno aveva girato Blade Runner, tira fuori questo film da un racconto di Philip K. Dick. Stefanone come sempre prende i migliori ingredienti e non lesina su nulla e in Minority Report c’è davvero tutto quello che ci deve essere: megabudget (102 milioni di dolla), supercast stellare, effetti speciali di riferimento. Però lo guardi e ti resta un po’ di amaro in bocca. Trattandosi di Stefanone, però, ti dici “non è possibile, ero io un po’ così quella sera” e lo riguardi. La seconda visione te lo fa rivalutare un pochino, anche se, date le premesse, ti resta comunque un brividino lungo la spina dorsale: che il tutto potesse essere molto meglio? Non dico Blade Runner che vabbè, resta lassù, irraggiungibile, ma la risposta è si. Qui siamo lontani – molto lontani – anche dalle migliori produzioni di Spielberg, il film tentenna, rulla continuamente senza mai realmente decollare, e alla fine si rivela un polpettone piuttosto palloso. Tom Cruise parecchio ingessato non convince, Max von Sydow è sempre grande ma marginale, Colin Farrell è clamorosamente fuori ruolo e mai credibile nei panni dell’inquisitore. Peccato, perchè la produzione resta di riferimento per fotografia, look-and-feel generale, e anche per alcune trovate come i precog (guidati dalla sempre meravigliosa Samantha Morton) o la rappresentazione epocale dei computer del futuro (e infatti da qui in poi tutti gestiranno i file mulinando le mani per aria…). Ma alla fine quel piccolo grande retrogusto di occasione mancata è sempre lì che incombe. Peccato.

Agatha: Murder.

Match Point (2005)

Il buon vecchio Woody Allen arriva e ti butta lì tra il lusco e il brusco questa specie di thriller con palla da tennis, racchetta e rete. Ma la pallina cadrà al di quà o al di là della linea? Un film su un’ossessione bionda, che appena la vedi mentre gioca a ping pong non puoi che condividere, immaginando dove ti staresti infilando tu, in quale guaio, se quello non fosse un film, se lei fosse li davvero. Le intesteresti la casa, la macchina, tutti i tuoi averi. Metteresti tutto a repentaglio. L’ossessione bionda si chiama Scarlett Johansson, qui in versione ragazza pericolosa. Pericolosissima. Perfetta. Un film dove Jonathan Rhys Meyers la combina, la fa grossa, e poi riesce a farla franca. Alla faccia di tutto e di tutti. Forse siamo in zona cult. Lo stesso Woody, parlando di questo film, ha affermato: arguably may be the best film that I’ve made. This is strictly accidental, it just happened to come out right. You know, I try to make them all good, but some come out and some don’t. With this one everything seemed to come out right. The actors fell in, the photography fell in and the story clicked. I caught a lot of breaks.

The Mechanic (1972)

Michael Winner e Charles Bronson ci raccontano – due anni prima di riunirsi per diventare famosi con Death Wish – la storia di un killer perfetto, che nei primi 20 minuti prepara ed esegue un lavoro, facendo entrare il film nel guinnes dei primati per questi lunghissimi momenti di cinema in totale assenza di dialoghi. Quasi una cosa da cinema muto. The Mechanic esalta i tempi del cinema di una volta, raccontandoci la pazienza di un killer di professione, il suo distacco di fronte alla morte, la sua meticolosità nel non lasciare mai tracce. Fino all’incontro con Jan-Michael Vincent, il giovane che volendolo emulare finirà per cambiagli la vita. Cinema che si prende i suoi tempi, dicevamo, dimostrando ancora una volta come un approccio meno caciarone e più di sostanza possa dare – anche ad un film non particolarmente indirizzato al pensiero – una personalità che molti prodotti odierni si sognano. Sia chiaro, The Mechanic è il classico action-thriller anni ’70, a tratti un po’ cheesy, a tratti un po’ ingenuo. Ma riesce anche ad essere affascinante e convincente. Alla fine, col tuo bel pigiama a zampa d’elefante, controlli che sotto il divano non ci sia Bronson in agguato. Ottimo per una serata revival; fossi in voi gli darei una chance.

Mr. and Mrs. Smith (2005)

La coppia più bella del mondo è annoiata, va in terapia, si riscopre diversa dopo cinque o sei anni, in un film assurdo e ultra-divertente che getta le premesse per la nascita di una nuova saga alla James Bond (che però non si farà mai). Da vedere lasciandosi andare al potere onirico della quintessenza hollywoodiana, rappresentata da una superproduzione patinata, ricca e scintillante, da una trama mai credibile ma comunque meravigliosa, da un cast di divi che gigioneggiano facendo la coppia di spie. Indimenticabile il momento dell’incontro tra la meravigliosa Angelina Jolie e Brad Pitt, con in sottofondo Mondo Bongo di Joe Strummer & The Mescaleros. Doug Liman dirige energicamente, e mette in questo film l’esperienza di The Bourne Identity: la mano action supercool si vede eccome. Mr. and Mrs. Smith resta ovviamente una cazzatona, capace però di fare – molto bene – quello che troppo spesso il cinema non riesce più a fare: regalarci un sogno. Perchè in fondo chi non vorrebbe essere uno di loro?

The Men Who Stare at Goats (2009)

Quattro soldati con l’ambizione di diventare cavalieri Jedi – ovvia citazione di Star Wars – in realtà corpo speciale di un esercito USA mai dipinto in modo così irriverente. Sono gli uomini che fissano le capre. Strafatti di LSD per dimostrare il loro poteri psichici, nascosti in qualche laboratorio segreto di Fort Bragg. Alla sua prima regia, Grant Heslov ci regala questo road/desert movie spassoso e irriverente, girato bene, fotografato meglio e recitato con enorme auto-ironia da quattro attori di primissimo piano: George Clooney (vero mattatore del film, ancora una volta in un ruolo da mezzo sfigato che gli fa onore), Ewan McGregor, il solito grandissimo Jeff Bridges (qui in versione Big Lebowski) e un perfido Kevin Spacey. Tratto dall’omonimo libro di John Sergeant, The Men Who Stare at Goats ha l’inquietante particolarità di essere basato su una storia vera – cioè gli esperimenti americani, in competizione con i sovietici, per creare supersoldati – la stessa in cui affondano le radici i vari x-files, fringe e tutte le varie teorie più o meno cospirazioniste.

The Matrix (1999)

Alla prima nazionale, nel 1999, mi ritrovavo seduto nella poltroncina del cinema, lo sguardo fisso nel vuoto, meravigliato, mentre scorrevano i titoli di coda. Non riuscivo a capacitarmi di quello che avevo appena visto. The Matrix. Un manga ipercinetico, portato su pellicola con incredibile maestria da due fratelli appassionati di fumetti e tecnologia. E anche se la storia non è nuovissima – insomma, le macchine che conquistano il mondo, pensiamo anche solo a Terminator – lo è la sua esecuzione: inimitabili le atmosfere superdark, le sequenza ultra dinamiche, le inquadrature iper-vitaminizzate, la fotografia patinatissima. E quel telecinema verde che da li in poi imiteranno più o meno tutti. Lungo la narrazione, tante le idee meravigliose: chi non vorrebbe l’upload cerebrale delle tecniche di kung-fu, incontrare la bionda vestita di rosso dello scenario di training, o anche solo avere il look-and-feel total black dei protagonisti? Maniacale, poi, la ricerca del dettaglio e folle la passione per la perfezione formale e narrativa, che diventano ulteriori trademark di questo film perfetto. In tutto questo, un cast indovinatissimo, tra cui spiccano Carrie-Anne Moss nella parte della fascinosa e cazzutissima Trinity e Hugo Weaving, inarrestabile agente nemico. Insomma, storia del cinema. Imperdibile.

(Quanto ai due teribbili sequel Reloaded e Revolutions, mi limito a dire che possono tranquillamente non essere visti. Anzi, vederli non farà che appannare l’idea originale, affievolendone la luminosità e di fatto impoverendola. Potendo, molto meglio evitare.)

Martin (1977)

Attraverso gli occhi di un adolescente disturbato che vive in un sobborgo di Pittsburgh – dove il film è stato realmente girato con un super low-budget di 800.000 dolla –  oppresso dall’ottusa religiosità del nonno, Romero ci mostra la sua idea sui vampiri. La cosa funziona. Nell’inconfondibile cheesyness del Maestro, restano indimenticabili i flashback in B/N, che non sai se sono fantasie malate di Martin o reali ricordi del giovane Nosferatu. Alla fine dopo che hai simpatizzato con Martin, strizzi il sangue dal divano, e non puoi che riflettere su quanto attuale sia l’ottusità del nonnetto killer.

Miami Vice (2006)

Un certo Michael Mann (quindi non il primo pirla che passava davanti al portone della Universal Pictures) sforna questo remake, più rivolto a chi non ha seguito il serial omonimo che non ai fedelissimi degli anni ’80. Il film non mantiene le promesse: le supera. Regalandoci un’atmosfera cupa, disincantata e sporca, che non ha nulla – o molto poco – a che vedere con la serie a cui si ispira. Colin Farrell e Jamie Foxx sono cool, tamarrissimi e – a patto di sospendere l’incredulità – perfetti per la parte. E la meravigliosa Gong Li è magnificamente calata nel ruolo della super-gnocca-super-cattiva, principessa di un plot in cui alla fine tutto lo sbattimento forse non è servito a niente. Girato completamente in digitale, è uno spettacolo visivo che raggiunge il culmine nell’unica sparatoria finale, per cui si raccomanda un 5.1 con sub-woofer di livello. Da possedere.

Munich (2005)

A me Spielberg piace sempre, perchè penso sia veramente un grande. Forse l’unico vero grande regista dei nostri tempi. E’ un grande anche quando è prolisso e meticoloso, come in questo film. Che però ha un’atmosfera che sembra davvero girato nel 1972, e quella violenza strisciante che alterna corpi straziati da raffiche splatter di AK47 e cervelli devastati dalla paranoia. Un film da non perdere, con un grande Eric Bana. Un film che poi prima di dormire controlli che nel materasso non ci sia una bomba.