Un Genio, due Compari e un Pollo (1975)

Luci e ombre: ambientazioni, fotografia e look and feel generale sono quasi (ma quasi) ai livelli dei migliori western. Non dico Leoniani, che sarebbe un filino troppo, ma chiaramente l’ispirazione è quella. I paesaggi dell’inconfondibile deserto rosso dello Utah danno a questo film un’allure visiva che altri prodotti nazionali, magari girati in val Brembana, si potevano sognare. La colonna sonora dell’inossidabile Ennio Morricone sembra fatta con la mano sinistra, ma il tocco del Maestro è sufficente a staccare il sound di questo film da quello di prodotti concorrenti. E poi tanto c’è Trinità, anzi, soprattutto Nessuno, in quello che di fatto è quasi un sequel di My Name is Nobody. Terence Hill, nella parte di Joe Thanks, è addirittura vestito esattamente come il Nessuno di Valerii. Ma alla fine questa non è che l’ennesima riprova del fatto che questo filmetto non aveva nessuna intenzione di essere originale. Non più di tanto almento. Siamo dalle parti della commedia, giusto per parlare di ombre, ma una commedia che in fondo non fa mai davvero ridere, limitandosi a sciogliere in una vasca d’acido quel che rimane di un genere già trasformato da Leone, ridicolizzato da Barboni e poi ucciso dai vari sfruttatori che seguirono. E nell’ampia galleria delle occasioni mancate, dopo un inizio promettente, voglio mettere il duello iniziale tra Hill e Klaus Kinski, nella solita parte da cattivo, che avrebbe meritato un trattamento – questo si – molto più leoniano e che invece viene buttato in vacca, ridicolizzato e depotenziato, nel solco della definitiva distruzione del mito. In definitiva, guardabile per gli amanti del genere, ma complessivamente un film inutile.

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The Avengers (The Emma Peel Years, 1965-1968)

Chi non si ricorda Agente Speciale è proprio di un’altra generazione, ma farebbe bene a prendere una bella macchina del tempo e correre a guardarne qualche puntata, così, giusto per assaporare quel look-and-feel terribilmente e irresistibilmente British e quelle trame che definire oniriche è un eufemismo – ma del resto quelli erano gli anni del Lysergic Acid Diethylamide, no? The Avengers è stato l’X-Files degli anni ’60, Mulder e Scully – così come Dunham e Peter di Fringe, del resto – probabilmente non esisterebbero se nel 1961 il produttore anglo-canadese Sydney Newman (che un anno dopo avrebbe creato anche Doctor Who, per dire) non si fosse fatto uscire dalla mente quest’idea meravigliosa, scegliendo come protagonisti una coppia di agenti speciali di non si sa bene quale ramo del Servizio Segreto di Sua Maestà. Questa serie arriva quindi prima di tutti, anche prima di James Bond (che avrebbe debuttato al cinema solo un anno dopo), a portare sugli schermi una specie di mix tra il giallo, il thriller e la sci-fi. E lo fa in modo me-ra-vi-glio-so in tutto, a cominciare dal cast. Un elegante gentleman londinese (il grandissimo Patrick Macnee) è il misterioso e infallibile John Steed, unico personaggio fisso, presente in 157 su 161 episodi. Intorno a lui varie partner femminili, che raggiungono il top di classe e successo con la bambolona Diana Rigg nei panni della karate girl Emma Peel, vera bomba sexy dell’epoca, bellissima secondo tutti i parametri, geniale e perfino spiritosa. Con lei al fianco di Steed la serie raggiunge il vertice del successo, dello charme, della personalità, e le seasons 4 e 5 vengono infatti definite The Emma Peel Years, raccolte su DVD set dedicati, osannate e adorate dai fans (non so se si era capito, ma io sono tra quelli). Certo, come scrivo sempre, visto oggi The Avengers mostra tutti i segni del tempo, sia a livello visivo che narrativo, e non può certo competere – quantomeno per realismo e ritmo – con i citati X-Files e Fringe, ma è ovvio. Questo però non toglie che la serie sia spesso più intrigante, meno banale, più profonda, ricercata ed evoluta – e sicuramente intellettualmente più stimolante – di tante action series contemporanee (ma non mi riferisco alle due appena citate) che nascondono il proprio nulla dietro a qualche facile sequenza CGI. Insomma, The Avengers è un capolavoro, vera pietra miliare della televisione e dello spettacolo in generale. Se non lo avete mai visto, fossi in voi mi sentirei un po’ in colpa. Concludo con questo estratto da Wikipedia, che magari stimolerà ulteriore curiosità: The series parodied its American contemporaries with episodes such as “The Girl From AUNTIE”, “Mission… Highly Improbable” and “The Winged Avenger” (spoofing The Man from U.N.C.L.E.Mission: Impossible and Batman, respectively). The show still carried the basic format — Steed and his associate were charged with solving the problem in the space of a 50-minute episode, thus preserving the safety of 1960s Britain. Comedy was evident in the names and acronyms of the organizations. For example, in “The Living Dead”, two rival groups examine reported ghost sightings: FOG (Friends Of Ghosts) and SMOG (Scientific Measurement Of Ghosts). “The Hidden Tiger” features the Philanthropic Union for Rescue, Relief and Recuperation of Cats — PURRR — led by characters named Cheshire, Manx, and Angora.

Steed: Mrs. Peel, we’re needed.

The Jackal (1997)

Stroncato dalla critica, non riconosciuto dall’autore del romanzo da cui è tratto (Frederick Forsyth), osteggiato anche da Fred Zinnemann regista dell’originale The Day of the Jackal (1973), questo film sembra avere attirato su di se tutta la voglia di critica dei frustrati di Hollywood e dintorni. Il che, sinceramente, è abbastanza incomprensibile. Perchè se è vero che The Jackal non è un capolavoro, nè una pietra miliare, nè particolarmente memorabile, è altrettanto vero che i tromboni della critica ufficiale si sono spesso sperticati con bonaria tolleranza per filmetti molto peggiori di questo. In fondo, lo sciacallo di Michael Caton-Jones è un dignitoso thriller di fine anni ’90, girato senza fronzoli nè con particolare personalità, ma con la gradevolezza del mestiere, una bella fotografia croccante, un montaggio bello ritmato, musica giusta e con un supercast da urlo in cui al tandem di belloni Willis/Gere si affiancano con autorevolezza l’evergreen Sidney Poitier e la credibile Diane Venora nei panni della poliziotta russa. Lungo il percorso è intrigante vedere i vari travestimenti dello sciacallo, l’inseguimento dei buoni, lo sviluppo del piano, la costruzione dell’arma. E se anche, ovviamente, il film richiede un discreto esercizio di training autogeno per raggiungere l’indispensabile sospensione dell’incredulità, alla fine la sua unica vera pecca è il solito, assurdo, forzatissimo, fottuto happy end. Perchè il vero Jackal ce l’avrebbe fatta, ma i benpensanti del sunset boulevard non ne vogliono sapere, forzando un finale in cui i soliti buoni trionfano, che più ritrito non si può. E poi lo criticano. Che dire? Coraggio.

Declan Mulqueen: This man is no clown. He knows all your moves, back to front. Right now, you’ve got a name; that’s all you’ve got. The Jackal has got a target: you. He’s got a timetable. And as to making mistakes, he’s spent twenty years in a trade that doesn’t forgive error. And he’s prevailed. You think he’s the one who’s up against it? It’s the other way around. 

Giù la Testa (1971)

Questo è il film di Sergio Leone che troppi ancora definiscono western, ma che western non è. Giù la Testa, Coglione – questo voleva essere il titolo prima dell’intervento della censura – potrebbe essere definito post western. Del resto Sergione col west aveva chiuso, e lo sapevamo, con l’arrivo della ferrovia al pacifico e la morte simbolica di Biondo, Tuco e Sentenza per mano di Armonica in C’era una Volta il West. E infatti, qui il west americano non c’entra niente, il tutto si svolge nel 1911 durante la rivoluzione messicana e i protagonisti sono un messicano che suo malgrado si ritroverà eroe della rivolucion – un grande Rod Steiger il cui personaggio deve moltissimo al Tuco di Eli Wallach – e un bombarolo irlandese in fuga dalla sua rivoluzione – un enorme e ultracarismatico James Coburn. Per il resto, dimenticati i tempi dilatati e i lunghi silenzi della quadrilogia del west, Leone scrive e gira quasi in modo sbrigativo, miscelando temi scottanti come la rivoluzione ad un trattamento che a volte sfiora la leggerezza ridanciana e il mood dei Trinità che verranno (e in questo senso, la colonna sonora di Morricone pende decisamente verso il disimpegno alla Il Mio Nome è Nessuno, e non aiuta). Giù la Testa è un film estremo, e polarizza le reazioni: è intenso, romantico e commovente, ma anche schierato e seriamente imbevuto di politica. E’ leggero, quasi una commedia, ma anche drammatico e crudo al limite del gore, come nelle numerose scene di massacri e fosse comuni. Insomma ci sono tutti gli ingredienti per farne un capolavoro, anche se alla fine resta un senso di irrisolto, di incompiuto, di incompleto. Pare che ai tempi delle riprese Sergione fosse già ossessionato dal progetto di girare C’era una Volta in America, e potrebbe anche essere, dato che il retrogusto di Giù la Testa sa di capolavoro mancato di un soffio, forse proprio per distrazione, approssimazione, fretta.

Mao Tse Tung: La Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza.

Che Bella Giornata (2011)

Potrei cominciare scrivendo che il film avrebbe tranquillamente potuto intitolarsi Che Bella Minchiata, e nessuno avrebbe potuto aver da ridire. Ma sarebbe troppo facile, il classico sparare sulla croce rossa. Il problema non è questo film, ma dove va il cinema italiano. Insomma, Che Bella Giornata era sempre tutto esaurito, mentre le sale che proiettavano pellicole di altro spessore – non dico cinema impegnato, ma anche solo altro spessore di puro entertainment – faticavano o erano mezze vuote. E quindi il problema non è nemmeno il cinema italiano, bensì il pubblico italiano, cioè noi. Per carità, nulla contro Checco Zalone e il suo filmetto, che per altro è carino, in alcuni passaggi fa ridere  – ma si rende anche ridicolo mentre prova a risolvere l’intricato tema del terrorismo estremista islamico con una ricetta di cozze avariate e amore non corrisposto – e lo si può vedere una sera a casa sul divano. Però mi si accapona la pelle quando penso che mentre noi produciamo e osanniamo come capolavori queste minchiate, all’estero (e non solo a Hollywood) si producono film esagerati (penso, per esempio, a Let the Right One In, film svedese riconosciuto perfino da Empire come new entry di riferimento del cinema horror e cinque stelle) di ben altro spessore e, per quanto di genere, di ben altra rilevanza nel panorama cinematografico internazionale. Insomma, ok Checco, le sue battutacce e la sua terronia, ma non venitemi a dire che questo è un Bel Film! (notare B e F maiuscole). Una nota a parte la presenza, simpatica, di Caparezza, amico di Checco, anche lui sacrificato sull’altare dell’unico genere di successo in Italia, la commedia/minchiata post-vanzina. Può anche far ridere, ma che tristezza.

Checco: “Tu studi? Non serve a un cazzo qui”

Who Framed Roger Rabbit (1988)

Inventore di fatto della tecnica mista che permise ai toons di recitare con gli umani, questo è il film che raccorda i due mondi, e finalmente sdogana il disegno animato, fino a cinque minuti prima relegato nelle nursery e considerato childish e poco interessante. Who Framed Roger Rabbit è un bellissimo noir, contiene un giallo vero, e mescola sapientemente moltissimi ingredienti, e perfino quel pizzico di peperoncino sexy di cui è totalmente permeata Jessica Rabbit (che nell’originale aveva la voce dell’allora altrettanto supertopa Kathleen Turner). Bob Hoskins è meraviglioso nei panni dell’iconografico investigatore degli anni ’40, Christopher Lloyd è sontuoso nel ruolo dell’ibrido superbaddie, ma sopra a tutti c’è ovviamente lui, il coniglio Roger, che per quanto caciarone al limite del fastidio, riesce ad essere naturalmente protagonista del film. Sceneggiatura a prova di bomba, idee e strizzate d’occhio ad ogni fotogramma (trovo meravigliosa l’idea di Toontown, il quartiere dove vivono i cartoni che lavorano come attori ad Hollywood!) e poi soprattutto l’incontro/scontro di tutti i personaggi Warner, Disney, ecc., reso memorabile ed esilarante dalla presunta frase politically scorrect che a quanto pare Donald Duck dice a Daffy Duck (“you goddamn stubborn nigger”). Insomma, un tripudio di cinema, animazione, citazioni e fantasia. Da riscoprire per chi lo ha visto vent’anni fa, da correre a vedere in bluray per chi se l’era perso.

Basilicata Coast to Coast (2010)

In effetti la Basilicata è una di quelle regioni italiane di cui non si parla mai, messa in ombra da altre regioni vicine o lontane decisamente più note, quando non famigerate. E a giudicare da questo film, non se ne coglie il perchè: trattasi infatti, a quanto pare, di vero e proprio paradiso terrestre, con tanto di rocche poetiche inerpicate su cucuzzoli, distese di morbide colline verdi e gialle, piatti e danze tipici, personaggi degni di un libro. Insomma, non fosse una commedia potrebbe trattarsi di un video di qualche ente turistico. Ma poi, al di là della Basilicata, questo è un film che parla di persone con il classico sogno nel cassetto (la band!) da sostenere e coronare, in fuga da tutto e da tutti, in questa sorta di pellegrinaggio alla ricerca e alla riscoperta di se stessi. E si, anche della Basilicata. Alla fine il personaggio più convincente è Max Gazzè – cui sono grato da anni per Una Musica Può Fare – capace con due parole di diventare il vero evento di un film in cui tutti, comunque, sono in trasformazione, o in evoluzione, verso non si sa bene cosa. Insomma, a piedi da una costa all’altra ci si ritrova, si cresce, si rivedono posizioni preconcette, si superano traumi e forse si trova pure l’amore. E perché no? In fondo la vita è un cammino, e questo film ne rappresenta una piacevolissima metafora.

Nicola Palmieri: La Basilicata esiste, è un po’ come il concetto di Dio, ci credi o non ci credi.

Vedi come lo ha recensito PJ

Paul (2011)

Incontrare un vero Alieno, soprattutto se avesse l’aspetto del classico omino verde alla x-Files e il carattere di un qualunque cazzone con cui ridere e scherzare, sarebbe carino, no? Ed ecco Paul, direttamente dall’Area 51, incrociare e dirottare il camper Simon Pegg e Nick Frost, quei due loschi figuri inglesi che in passato avevano fatto robine tipo Spaced o Shaun of the Dead. Questo film ricorda per certi versi Galaxy Quest, con cui condivide gli abbondanti riferimenti alle convention di nerd impallinati di sci-fi e insieme a cui rappresenta un devoto messaggio d’amore incondizionato al genere. Paul è tra noi, ed è grazie a lui che Stefanone Spielberg ha girato Close Encounters of the Third Kind, e sempre grazie a Paul la Fox ha creato il già citato x-Files. Insomma, è un alieno ma è anche una specie di consulente dell’umanità. Che però ad un certo punto capisce la differenza tra essere ospite ed essere prigioniero, e decide di tornare a casa. Il film è una meraviglia, che cita a mani basse tutto quello che può, e che ci regala un alieno come in fondo vorremmo che fossero: verdi, con gli occhioni e la testona, ma simpatici e cazzoni come noi e, perchè no, con qualche super potere derivante dall’evoluzione. Lungo il percorso affrontiamo temi spinosi mescolati a battutacce e puzzette marziane, ma sempre con la delicatezza di non scadere mai nel pecoreccio. Pegg e Frost si confermano geniali, e la provenienza UK si sente eccome, regalandoci un film che riesce a rimanere leggero al punto giusto. Da vedere, soprattutto se si ama la fantascienza, ma anche no.

Clive Gollings: Agent Mulder was right!
Paul: Agent Mulder was my idea!

Entrapment (1999)

Filmettino carino, tutto costruito intorno alle forme di Catherine Zeta-Jones e al fascinoso gigioneggiare del grande Sean Connery – sempre decisamente carismatico. Lei, la Zeta-Jones, in questo film è quasi troppo bella per essere vera, mentre lui è già piuttosto attempato, ma tra i due si sviluppa comunque un’alchimia interessante e capace di intrattenere. La scena incriminata, quella del training con i fili di lana a simulare i raggi laser, è assurda ma anche intrigante, coreografata quasi come un balletto, studiato apposta per permettere alla Zeta di mostrarci per bene il suo culetto – decisamente in forma – e a Sean di farci i suoi faccioni, più eloquenti di qualunque commento da uomo a uomo. Per il resto siamo ovviamente dalle parti del puro e auto-cosciente divertissement, forse con dentro anche qualche residuato di anni ’80, quel po’ di leggerezza assurda e superficiale di certi film simil-action/simil-thriller che tanto sai già come andranno a finire, ma è bello vedere come avviene. La regia di Jon Amiel è di mestiere, la storia della rapina del millennio non sta nè in cielo nè in terra, ma alla fine chissenefrega. Te ne stai lì sul tuo bel divano, col sorrisino complice, aspettando che quei due lo mettano in quel posto all’FBI e a tutti gli altri. Magari non proprio da correre a vedere, nè da riscoprire, ma se lo avete lì può risolvere una serata.

Lesbian Vampire Killers (2009)

Qui c’è un gran puzzo di occasione mancata. E dalle ceneri di un’approccio alla vorrei tanto essere un esempio di B-movie degli anni duemila esce questa stronzatona di dimensioni epocali. E pensare che l’inizio era promettente, con quella voglia di regia alternativa (Phil Claydon), magari un po’ forzata, alla ricerca del famolo strano ad ogni costo, ma comunque carina e intrigante. E a dire il vero, anche alcune battute non erano male. Ma poi il tutto implode nel delirante liquame di uno script arrabattato (Paul HupfieldStewart Williams sarebbero da sbattere in miniera) ma soprattutto della pavida incapacità di portare l’idea alle estreme conseguenze. Insomma, analizzando le tre parole che compongono il titolo – ammettiamolo, intrigante – di Lesbian qui c’è molto poco, ancor meno c’è traccia di Vampire, mentre i Killers (che immagino dovrebbero essere i protagonisti guidati dal puzzolente e unto James Corden) fanno buttar via dalle risate un intero pollaio. E purtroppo non si tratta di risate positive. Peccato, perchè oltre ai già citati titolo e inizio (promettenti) c’era un gran bisogno di un B-movie come si deve. Personalmente mi ci sono avvicinato con l’inconfessabile speranza di trovarmi di fronte ad un altro gioiellino tipo Shaun of the Dead, pia illusione! Lasciate ogni speranza, oh voi ch’entrate: questo film è una vera ciofeca.

Fletch: Yep, lesbian vampires. Just another one of God’s cruel tricks to get on my tits. Even dead women had sooner sleep with each other than get with me it would appear. But eatin’ me alive, oh no, that’s fine. Next time he’ll have me bummed by a big gay werewolf I swear.

Rango (2011)

Credo che inizierò dicendo: finalmente! Finalmente il cinema di animazione si è ricordato del vecchio west e, soprattutto, del cinema western. Con la sola eccezione di West and Soda (di Bruno Bozzetto, 1965, vedi recensione) infatti non si ricorda un’opera così fortemente dedicata alla memoria di un’epoca, e di un cinema, ricca di suggestioni e di possibilità narrative. E se questo Rango dedica la superficie ai più piccini – la storia dell’acqua, il bene contro il male, ecc. – tutto il resto, i dialoghi, le inquadrature, le espressioni dei “volti”, le musiche, tutto è dedicato a noi quarantenni, a ricordarci il grande cinema di Sergio Leone o Sam Peckimpah, le colonne sonore di Ennio Morricone – qui citate sfacciatamente da Hans Zimmer – e i polverosi duelli nella Main Street. C’è perfino una specie di cameo di Clint Eastwood, naturalmente con poncho e speroni, a riprendere in chiave angelica il personaggio di The Man with No Name della trilogia del dollaro. Insomma, una vera emozione, e un senso di meraviglia, di sorpresa di fronte ad un omaggio così dichiarato e inaspettato ad un cinema che tanti adorano ma che altrettanti snobbano e considerano finito. Per il resto il film rasenta la perfezione formale, meravigliosamente prodotto – ormai la differenza tra animazione digitale e realtà si vede solo perchè i produttori vogliono che si veda – e con un super cast – perchè nella versione originale la voce di Rango è di Mr. Johnny Depp – siamo decisamente in zona perfezione assoluta. La sceneggiatura magari scricchiola quà e là, e forse ne esce un film anche troppo lungo. Ma insomma, alla fine l’appagamento è tale e tanto che te ne vai a casa bello pieno di ricordi vecchi e nuovi. Da vedere.

Rango: So you want something to believe in? [points at the “Sheriff” sign] Believe in that there sign. For as long as it hangs there we’ve got hope.


Everybody’s Fine (2009)

In uno di quei film che a Hollywood chiamano Dramedy – l’unione di Drama e Comedy – Robert De Niro ci regala un personaggio meraviglioso, dolce e intenso, come solo lui sa fare. E infatti questo film sta in piedi principalmente grazie al fatto che ci sia lui a recitare nella parte di un papà che, rimasto vedovo, vuole rivedere i propri figli, ormai cresciuti e sparsi ai quattro angoli d’America. La ricerca di questo incontro, che per una serie di motivi però sembra sfuggirgli, permette a Robertone, con la complicità misurata del regista Kirk Jones, di lanciarsi in una specie di road movie della terza età, regalandoci scene di grande malinconia (la sua solitudine nelle scene iniziali e nel viaggio a New York è devastante) ma anche di grande profondità, stimolando la riflessione su certi rapporti familiari e sulle distanze siderali che a volte si percepiscono anche con chi abbiamo magari di fianco. Un bel film, magari non proprio memorabile per gli attori di contorno, decisamente troppo bidimensionali, in cui De Niro svetta con la consueta forza delle emozioni che sa trasmettere anche solo muovendo un sopracciglio.

Art Gallery Girl: He used to say that if it wasn’t for his dad he never would have become an artist. He said he would have ended up painting walls, and that dogs pee on walls…

Love and Other Drugs (2010)

Durante i titoli di coda ho mormorato carino, anche se alla fine ripensandoci non so nemmeno bene perchè. Questo film è strano, per due motivi: 1) i personaggi sono polarizzati, tagliati con l’accetta, costruiti quasi senza nessuna profondità. Ma malgrado questo riescono a bucare lo schermo e ad esserti simpatici, a creare una sorprendente empatia, merito forse della regia delicata e calda. 2) Edward Zwick – di cui adoro The Last Samurai – tenta di mescolare acqua e olio, senza naturalmente riuscirci troppo bene, ma shakerando lo spettatore nel tentativo. Tradotto: comedy e drama difficilmente vanno d’accordo, e sono rarissimi gli esempi di un mix equilibrato di questi due generi. Questo film, questa è la notizia, non entrerà a far parte degli esempi. Le venature drammatiche, le riflessioni sulla malattia, le incursioni nel sentimentale più serio, risultano parentesi forzate, spinte dentro a fatica in uno spazio – la commedia – che difficilmente le può ospitare. Un po’ come forzare un cubo nel buco triangolare al test di ammissione nei carabinieri. Il film resta tuttavia piacevole, principalmente grazie alle prove convincenti di Jake “Donnie Darko” Gyllenhaal Anne “Devil Wears Prada” Hathaway, che come detto sviluppano una chimica intrigante e che, malgado una certa inclinazione al faccismo (occhi troppo sgranati, sorrisi troppo ampi, stupore troppo stupito e così via) sono decisamente bravini e gradevoli. Acqua fresca, fonte Hollywood. Però, come spesso accade, capace di dissetarci in un bel martedi sera spiaggiati sul divano.

Maggie Murdock: You want to close right? You want to get laid?
Jamie Randall: Now?
Maggie Murdock: Oh right, right, right. I’m supposed to act like I don’t know if it’s right. So then you tell me that there is no right or wrong. It’s just the moment. And then I tell you that I can’t while actually signalling to you that I can, which you don’t need because you’re not really listening. Because this isn’t about connection for you. This isn’t even about sex for you. This is about finding an hour or two of relief from the pain of being you. And that’s fine with me, see, because all I want is the exact same thing.

The Recruit (2003)

Roger Donaldson (lo stesso di No Way Out, bellissimo spy thriller anni ’80) torna sulla scena del delitto, e cioè a Langley e alla CIA, per raccontarci la storia di un grandissimo Al Pacino nei panni di un infallibile reclutatore di talenti per i servizi segreti USA. Colin Farrell è simpatico e credibile (!) nei panni del reclutato, anche perchè forse nel 2003 non si prendeva ancora troppo sul serio. Devo dire che la prima ora il film scorre liscia e perfettamente equilibrata. La regia e la trama intrigano e, anche se siamo ovviamente e dichiaratamente dalla parti del pop-corn movie, ti coinvolgono e tirano dentro, anche grazie a personaggi molto ben costruiti. Lungo il percorso, lentamente, la sceneggiatura prende – aimè – la via della prevedibilità, e dopo il terzo presunto colpo di scena ti ritrovi in pena zona luogo comune. Sensazione che culmina e trova conferma nel discorso finale di Alfredone Pacino, che pesca a piene mani dal solito ritrito cassetto del fedele servitore dello stato a cui non sono mai stati dati i giusti riconoscimenti e che ora si prende la rivincita. Peccato, ma in ogni caso The Recruit (in italiano La regola del Sospetto, mah…) rimane comunque un piacevolissimo spy-thriller, ottimamente recitato, prodotto alla grande, girato in modo intrigante e perfetto per quel paio d’ore di relax. Insomma, Cinema d’evasione con la C e la E maiuscole, senza la pretesa di fare discorsi del re o la storia del silver screen.

Burke: Nothing is what it seems.

The King’s Speech (2010)

Scusate ma a ‘sto punto, dopo aver sentito le peggiori sviolinate a reti unificate, devo dire anch’io la mia. Non tanto perchè in disaccordo – anzi controcorrente – quanto perchè questo film secondo me rappresenta la quintessenza del conformismo e l’appiattimento della critica: siccome qualcuno ha detto che è bello, allora tutti dietro come un gregge, compresi quelli che a Hollywood distribuiscono statuette. Ma purtroppo per fare un buon film non basta parlare di un balbuziente, della seconda guerra mondiale e della monarchia inglese. Così come non bastano un paio di bravi attori. Trattasi di stratagemmi da quattro soldi, che però a quanto pare sono riusciti a sdoganare un film in cui la regia è morta e la sceneggiatura di una noia mortale. E purtroppo (per il film) quattro oscar rubacchiati alla noia di un’interminabile e inutile sbadiglio non lo faranno entrare nella storia del cinema. Ma il peggior difetto di questo Discorso del Re è l’irrilevanza, perchè continuamente durante questo film ti chiedi a chi possa interessare, perchè non aggiunge nulla, perchè è un dettaglio che non intriga, non commuove e non convince. Tutto questo clamore ingiustificato e ingiustificabile ricorda più il grande fratello che quella nobile arte chiamata Cinema. Una ciofeca.

Gattaca (1997)

Questo stilosissimo e intenso film, di piena ispirazione biopunk, firmato Andrew Niccol, è uno di quei capolavori di cui alla fine si è sempre parlato poco, e non si capisce perchè. In un futuro più o meno prossimo – scenografato alla grandissima fondendo tecnologia e modernismo anni ’50 – il livello sociale di ogni individuo viene definito in base alla purezza del suo DNA. Alla faccia delle leggi razziali, siamo in piena eugenetica: il tema della discriminazione è in realtà solo un acceleratore per lo svilupparsi del film, e viene trattato in modo sufficientemente superficiale da non diventare pesante. Di pura ispirazione tech-noir le varie sotto-trame poliziesche, che si intrecciano a momenti d’amore in un crescendo perfetto fino al fatidico viaggio nello spazio, che comunque non vedremo. Un capolavoro, dicevamo, recitato benissimo da Ethan HawkeJude Law, e da una Uma Thurman bella come non mai. Da riscoprire, rivedere, e mettere in cassaforte.

Vincent: A year is a long time.
Irene: Not so long. Just once around the sun.

Ronin (1998)

Il veterano John Frankenheimer torna all’action poliziesco in uno dei suoi ultimi film (scomparirà quattro anni dopo) e lo fa potendo contare su un cast bello solido (direi che Robertone De Niro e Jean Reno sono una garanzia) e su una storia che, per quanto a costante rischio di dejà vù, offre discreti spunti d’interesse. E infatti la prima mezz’ora tiene e intriga alla grande, le scene iniziali in cui Robertone arriva a Parigi, e poi tutta la fase successiva di conoscenza del team e messa a punto del piano, sono belle ritmate e ti tengono lì incollato col super attak, malgrado la gnocca Natascha McElhone sia decisamente poco credibile nel ruolo di project leader. Poi arriva il primo inseguimento in auto, e il film inizia a deragliare su un pendio che lo porterà piuttosto velocemente dalle parti di un dozzinale guardie e ladri nemmeno particolarmente interessante. Colpa di una sceneggiatura che nella parte centrale lascia il tempo che trova, e dello stesso Frankenheimer che si fa prendere la mano da sparatorie, esplosioni e decisamente troppi (ma troppi!) inseguimenti in auto. Un timido tentativo di romance tra De Niro e la McElhone prova, senza riuscirci, a dare pepe ad una parte centrale decisamente ribollita e stucchevole. Nel finale il film si risolleva, tornando quasi sul livello della parte introduttiva, ma lasciandoci comunque una sensazione di mezzo amaro in bocca. Peccato, perchè le premesse per farne un cult c’erano tutte, il cast e i soldi anche. Insomma, per rovinare Ronin ci hanno messo del loro.

Sam: Either you’re part of the problem or you’re part of the solution or you’re just part of the landscape.

Skyline (2010)

Che tristezza vedere tanti soldi di budget buttati dalla finestra per finire nel vuoto di menti senza idee. Ennesima riprova che gli effetti speciali da soli non risolvono un bel niente, e tantomeno questo film senza senso, Skyline è il patetico tentativo dei fratelli Strause (sorta di sfigati wannabe di Andy e Larry Wachowski) di fare un paciugo tra Independence Day, Cloverfield e The Mist. Ma gli Strause devono ancora mangiare tonnellate di semolino prima anche solo di allacciare le scarpe a quell’esaltato di Emmerich, figurarsi poi a J.J. Abrams! E infatti dove i tre film eccellevano – originalità, grandeur e personalità – Skyline implode, sciorinando una serie di banalità senza fine, una poltiglia di luoghi comuni e continui dejà-vù, fino a soccombere sotto i colpi del suo stesso nulla. Venti milioni di dollari che chiunque avrebbe saputo spendere meglio, e i due geni (sempre gli Strause Brothers) che già paventano un sequel, che sinceramente non è chiaro se sia una promessa o una minaccia. Leggerissimamente – e del tutto ingiustificatamente – presuntuosi, eh? Pietoso velo di silenzio, infine, sugli incolpevoli signori nessuno selezionati da un casting director evidentemente ubriaco, sulla colonna sonora che definire anonima è bonario e su una sceneggiatura che sembra fatta unendo e peggiorando le scene più ritrite e banali dell’immaginario sci-fi catastrofico. Sinceramente, lasciate proprio perdere. Nessuna stellina.

Amici Miei (1975)

La foto dell’Italia che comincia a sfaldarsi, che il grande Mario Monicelli scatta a cavallo degli anni ’70 ereditando un progetto di Pietro Germi, prendendo a pretesto la storia di un gruppo di amici inseparabili e bisognosi di evadere da una vita che – come la società – è sempre più grigia, incerta, insapore. Un film girato quasi completamente sotto un cielo plumbeo, dove il sole è simbolicamente optional, a sottolineare uno stato d’animo. Sotto ogni battuta, ogni risata, ogni supercazzola brematurata, c’è un fondo di sconfinata amarezza, di sconfortante caduta verticale di valori e ideali che salvano solo l’irrinunciabile amicizia virile che lega i protagonisti. Un enorme Ugo Tognazzi ci regala il conte Mascetti, vero perno del film, vero rappresentante dello sfaldamento che Monicelli vuole raccontare. Lui e la sua nobiltà decaduta, la moglie e la figlia dimenticate su qualche montagna al gelo, mentre lui impazzisce di gelosia per la lesbica ventenne. E poi tutti gli altri personaggi in gara per la perfezione: il Necchi, il Perozzi, il Melandri, il Sassaroli. Come se fosse antani, la già citata supercazzola si affianca alla zingarata, ed è subito mito. Si ride tanto, ma si ride dolce-amaro. Perchè in fondo ognuno dei personaggi rappresentati dai perfetti Philippe Noiret, Gastone Moschin, Duilio Del Prete e Adolfo Celi non sono altro che lo specchio in cui ognuno di noi vede al tempo stesso la propria voglia di conformismo ed evasione, famiglia e zingarata, maturità e fanciullezza. Mito per definizione, in questo film non si contano le scene magistrali e irripetibili, ma voglio citare la stazione, la distruzione del paese e il colpo di genio del Necchi quando la fa nel vasino. Amici Miei è un film eterno, perfetto anche nei suoi eccessi, anche in quella seconda parte forse un po’ tirata in lungo, in cui la sceneggiatura scricchiola un filo. Un film che potrebbe essere contemporaneo perchè, se ci pensiamo, quelli che allora (forse) erano eccessi, oggi sono (quasi) la normalità.

Il Perozzi: Ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. E quelle future? Che sia per questo, per non sentire il peso di tutto questo che continuo a non prender nulla sul serio?

The Killing (1956)

Un certo signor Kubrick ha scritto e diretto questa cosa cinquant’anni fa, quando i film erano diversi e le sceneggiature pure. The Killing (Rapina a Mano Armata per noi) è un film in cui ci già sono molte delle cose che verranno, a riprova – ma non ce n’era bisogno – di quanto Stanley fosse avanti. Giusto per dirne una, tutta la fase di avvicinamento alla rapina raccontata più di una volta – ma ogni volta diversamente – attraverso le storie dei vari componenti della banda (i sapientoni del cinema la definirebbero struttura diegetica non lineare, ma qui siamo su Directed By e parliamo come mangiamo). In questo film c’è già molto – seppur allo stato embrionale –  di come poi qualcuno (chessò, Tarantino in Reservoir Dogs e Pulp Fiction?) userà a dismisura la narrazione via flash-back o i salti temporali o gli stessi cinque minuti ripetuti attraverso gli occhi dei diversi protagonisti. The Killing è un capolavoro, invecchiato benissimo, o forse nemmeno invecchiato, in ogni caso super-cool. Da stravedere.

Maurice: You have my sympathies, then. You have not yet learned that in this life you have to be like everyone else – the perfect mediocrity; no better, no worse. Individuality’s a monster and it must be strangled in it’s cradle to make our friends feel confident. You know, I’ve often thought that the gangster and the artist are the same in the eyes of the masses. They are admired and hero-worshipped, but there is always present underlying wish to see them destroyed at the peak of their glory.